Le cicatrici

Reperti organici di giorni felici

La scorsa domenica al corso di scrittura ci siamo scambiati delle nostre fotografie.
Il compito consisteva nell’inventare di sana pianta un personaggio partendo da questo scatto, senza tener conto del chi è davvero la persona nella realtà. Ognuno di noi ha elaborato un profilo fisico e caratteriale inserendo il tutto in un contesto narrativo totalmente frutto della fantasia. Unico vincolo: raccontare il passato di questo personaggio fino al momento della foto, non il futuro.

L’immagine a me assegnata ritraeva un uomo sulla quaratina, dai lineamenti forti e ritratto di profilo . Capello corto brizzolato, occhiale scuro, abbronzato. La foto era tagliata ad altezza spalle, visibilmente larghe.

Ecco qua cosa ha partorito il mio cervellino…

Motivation Focus è una società di eventi nell’ambito della formazione e della crescita personale.
Ogni anno, presso il teatro di una famosa comunità di recupero, organizza una costosissima giornata rivolta a manager sopiti per stimolarli e incentivarli attraverso racconti di vita diretti.

Questo raduno motivazionale si chiama Meet-working Day, a salire sul palco dietro lauto compenso sono personaggi noti, i quali, saggiamente resilienti, hanno fatto di debolezza virtù per la loro carriera. Geniali musicisti ex-tossici ravveduti, affermati scrittori dislessici o sportivi disabili diventati medaglie d’oro.

Oggi, 12 novembre 2018, sul palco parla il nuotatore paraolimpico Alfredo Visintin

Mi chiamo Alfredo Visintin, in vasca però sono Alvis, acronimo di nome e cognome, non credo ci voglia un genio a capirlo! Quello che invece non si capisce, ovviamente perché non lo sapete, è la passione sfegatata di mia madre per Elvis, qualcosa che mi accompagna dal 1973, dall’utero della mia genitrice. Lei si chiama Irene Bernardis, una quasi ottantenne gigantesca, tutta friulana ma esoticamente fan dell’iconico Re del Rock.
Maestra d’inglese in pensione in un collegio femminile, ironia del destino madre di tre maschi, insegnava la lingua attraverso le canzoni di Presley.

Mio padre Alvaro Visintin, classe 1935, puro sangue udinese, pace all’anima sua, ci ha lasciati di colpo e per un colpo, dieci anni fa. Un uomo buono dal carattere pedante, lavoratore instancabile e proprietario di un piccolo negozio di elettrodomestici. Sì, gli piaceva chiamarlo così: “negozio di elettrodomestici”, anche se ne vedeva pochi, più che altro ricaricava e trasportava bombole del gas nelle case. A pensarci bene, assomigliava anche un po’ a una bombola, era basso e tarchiato. Grazie a quei recipienti c’abbiamo mangiato tutti.

Eh già, ce n’erano parecchie di bocche da sfamare in quegli anni. Sono l’ultimo di tre fratelli, nel giro di dieci anni mamma è rimasta incinta quattro-cinque volte, per fortuna però solo in tre siamo arrivati in sala parto. Evidentemente Alvaro non pensava solo alle bombole e Irene aveva un’altra passione oltre a Elvis.
No, non sono uno stronzo, sono friulano è diverso. La simpatia non va di moda in Friuli. Certo, non ho un bel carattere, non l’ho mai avuto. Ultimamente sono pure peggiorato: la provenienza, l’età e la sedia a rotelle non aiutano la beltà d’animo. Vabbè, non esiste paraplegico al mondo particolarmente entusiasta di esserlo.

Ecco perché sono qui, per la sedia intendo, mi hanno invitato a raccontarvi della trasformazione.
Come ho fatto da mediocre nuotatore sano a diventare un pluridecorato nuotatore handicappato?
Lesione traumatica del midollo spinale con conseguente lacerazione delle vertebre lombari. Paraplegia, la chiama lui. Cosa significa, chiedo io. Lei non camminerà mai più, risponde. Aggiunge che l’impatto è stato devastante per il tronco, tutto sommato sono vivo e non ho perso l’uso degli arti superiori.
Ah che culo, penso io, grandissima testa di cazzo!
La totale assenza di empatia del mio medico l’ho imparata ad apprezzare col tempo, all’epoca invece volevo solo vederlo morto.

Voi ve la ricordate l’estate 2003? Un caldo che pareva di stare all’inferno. Quel giorno sudavano pure i pesci. Nonostante fossi uno sportivo avevo parecchi vizi: birra, vino e grappa in primis. Insomma, bevevo anche le pozzanghere. Lo faccio tutt’ora a dire il vero, dentro di me so che non è stata colpa del bianco fermo gelato ma del fatto che sono sempre stato uno scellerato, privo di qualunque senso del pericolo. Certi giorni, adesso come adesso, l’alcol mi salva dagli psicofarmaci…sia chiaro, non sto dicendo: su, su, fatelo anche voi di bere un litro di Vermentino però non raccontatemi certe stronzate salutiste, a me che campo di medicine.

Precisamente, il 23 luglio 2003, insieme ad alcuni amici ce la passavamo alla grande in Sardegna. All’epoca avevo trent’anni, ero alto un 1,90m per 110 kg, più capelli e più scuri di adesso, meno spalle ma sempre poco sale in zucca rispetto ai miei anni. Mi circondavo solo di simili: sportivi mediocri poco sportivi e molto mediocri, operai in grado di sputtanarsi la paga di un anno di fabbrica in vacanze al di sopra delle loro possibilità e ragazze così desiderose di sbarcare il lunario della tv da essere abbindolate da qualunque stronzata ci inventassimo. Infatti, ci presentavamo sempre come amici degli amici di Lele Mora.

Una rossa romana della quale non ricordo il nome ma solo il colore di capelli, ci sfidava a farlo, a buttarci, chiamandoci mezzeseghe. “Daje cazzo” diceva. Quell’altro, il lombardo, intercalava tutto con “figa”, “figa se è alto, però”. Io ero a mille. Mai avuto timore dell’altezza e mi sono lanciato per primo. Senza pensarci, senza asciugarmi i piedi, senza guardare la roccia. Certo, poteva essere scivolosa. A volte capita, no? Quella specie di melma che c’è sulle rocce affacciate sul mare. Potevo anche non correre per dare spettacolo. Dopo di me comunque non si buttò più nessuno e più nessuno vidi in seguito. È giusto così! Non erano amici, non mi sarei aspettato che qualcuno mi venisse a cambiare il catetere.

Certa gente, quelli come me intendo, non cambiano. Cambiano solo se costretti a farlo.
Piedi bagnati, roccia scivolosa e un impatto con l’acqua così violento da frantumarmi la schiena come un vaso di ceramica buttato sul pavimento. Sono stato costretto a cambiare prospettiva per poter sopravvivere.

C’ho riflettuto, sapete. C’ho pensato un sacco e ho scoperto di non avere alternative. Non possiedo una pistola. Per impiccarmi, invece, dovrei poter usare le gambe. Non sono un medico quindi non so quante pasticche mi occorrano per una dose letale. Capite bene, non ho chances oltre a questa vita qui, in questa forma qui. E allora ho deciso di combattere ostinatamente, come ogni friulano che si rispetti e come non avevo mai fatto prima.

Inizialmente volevo a tutti i costi tornare a camminare e quindi giù di terapia. Ero ossessionato, ricercavo in maniera compulsiva risposte e poco ci mancava mi affidassi a quei ciarlatani venditori di fumo. Ve l’ho detto, non sono mai stato una mente astuta, bello forse, intelligente mai, disperato parecchio. Sono rinsavito grazie alla fredda semplicità del mio medico. Un giorno disse: “Alvis, non c’è terapia che tenga, il midollo non è pelle, non si rimargina. Non è neanche muscolo, quindi non si allena. Concentrati sulle braccia, lascia stare le gambe”.

Ricordo allora mio padre. Ah non ve l’ho detto, era un nuotatore anche lui, serio e integerrimo, puntava alle Olimpiadi. Mia madre rimase incinta e arrivederci nuoto ma soprattutto addio sogni di gloria. Ogni aspettativa la riversò sui figli e ci provò con tutti e tre ma solo con me trovò terreno fertile, probabilmente per la fisicità. “Devi allenare le spalle! Lascia stare quelle gambe! Non sei simmetrico” urlava da bordo piscina. Tornavo indietro e mi legava gli arti ad altezza ginocchia così che fossi costretto ad adoperare solo le braccia. Cristo santo, quanto lo ringrazio oggi.

Oggi le uso le braccia, eccome se le uso. Non sono solo braccia, sono gambe, sono piedi e in vasca diventano ali.
Da persona abile non sono mai stato un gran nuotatore, avevo semplicemente accontentato mio padre. Realizzavo, male, il suo sogno perché non ne avevo uno mio. L’incidente probabilmente è accaduto perché capissi cosa cazzo dovevo fare nella vita. Ok, bastava anche meno, direte voi, invece no per i testoni come me una gamba rotta non è sufficiente, servono dimostrazioni forti.
Nonostante l’incidente offrisse una giustificazione alla mia tendenza al compatimento ho deciso di smettere di piangermi addosso.

Quello che faccio oggi lo dice bene un tipo, un cantante poco conosciuto: ho reso “Le cicatrici, reperti organici di giorni felici”.

Nel 2008, ho vinto l’oro e oggi sono allenatore della squadra paraolimpica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *